Riccardo Paletti
Il contributo degli amici

Diego Gelmini

Sbuffano, arrancano, ingoiano metri d’asfalto: sono i superstiti, gli ex compagni di Richy, i piloti che non hanno ancora incontrato la morte in un sorpasso maldestro o in una frenata azzardata.

Il video crudele testimone di eventi insanguinati rende loro la giusta mercede per l’insano rischiare. Sfrecciano nei loro coloratissimi siluri rotabili, leggeri come scatole di sardine e veloci come ogive mortali, alla ricerca di nuovi clienti che comprino pezzi pubblicitari delle loro tute: una scapola trecento milioni, un gluteo anche meno. La vita che palpita sotto i marchi di fabbrica cuciti sul petto invece è gratuita, un buon pilota la offre senza rimpianto, non mercanteggia sul prezzo, si contenta di guidare l’auto più veloce e quando abbandona in un lago di sangue il sedile della sua monoposto, cento altri temerari si azzuffano per sostituirlo.

E il mondo continua a marciare, digerendo qualsiasi tragedia, seppellendo piloti e ricordi, per soffocarne il macabro spettro. Ma io testardo non tremo e ricordo la vita che fu.

Era l’ultima tiepida settimana di aprile ed una metropoli di provata fatica si addormentava languidamente in una notte da sortilegi; sul capo la coltre stellata prometteva un’estate gravida di amori e di agognate soddisfazioni. Ancora una volta Richy, allampato pilota di belle speranze, mi aveva strappato a notte intrapresa dalla avvilente aridità dei miei manuali di diritto. Il pianoforte del nostro solito bar – discreto testimone di antiche marachelle – ci distraeva come ogni sera da un sonno al quale, per smania di vivere, non volevano arrenderci; con Riccardo avevo diviso per anni i banchi di scuola, mentre ora dividevo ambizioni e speranze, insieme a poche olive, due sigarette ed un bicchiere di Porto. Oh sì, lui era già un personaggio, lambito da una celebrità ormai prossima, ma la sua vita – salvo le corse, un autografo estemporaneo e i favori delle fanciulle raccattate su qualche circuito – era quella di sempre: dalla sveglia troppo mattutina per soddisfare i legittimi bisogni di Sansone (uno York Schire non più lungo di una spanna), alle nostre scorribande notturne al Luna Park dove, per ironia del destino, non gli riusciva mai di vincere sulle automobiline.

Introverso e modesto driblava con signorilità e precisione ogni festa mondana; non gradiva il clamore scomposto dalla notorietà di rotocalco, ma accettava di buon grado una seggiola al desco dei compagni di scuola che ascoltavano affascinati le sue avventure tra fiaschi di vino novello sparpagliati anche troppo alla buona sui tavoli tarlati delle vecchie osterie di Brera. In uno di questi banchetti nostrani, un’intraprendente donzella dalle rotondità accattivanti gli chiese perché mai un ragazzo tutt’altro che povero si ostinasse a cercare il successo al volante di un missile di Formula 1. “Semplice – rispose Ricky – perché è ciò che di meglio so fare. Non cerco né soldi né gloria, ma cerco un mio posto nel mondo: forse è un po’ colpa mia se ho imparato soltanto a guidare”.

Aveva molta paura e come ogni uomo che meriti tale nome lo ammetteva candidamente, parlandone a iosa, per esorcizzare quella morte che sentiva sempre in agguato.

“Tra il destino di Depailler e quello di Regazzoni – confessava con rassegnazione – preferisco il primo: morire è meglio che sopravvivere storpi o invalidi” e nei suoi occhi profondi e scurissimi balenava un fremito di terrore.

Per sette Gran Premi tentò di partire: sei volte rimase appiedato per il cedimento della stessa sospensione, ma non imprecò, non accusò, era troppo “signore”, un vero gentleman del volante alla Giannino Marzotto,

Ad Imola, dove avrebbe potuto celebrare la gioia della sua prima partenza, gli toccò anche la beffa di non poter avviare il motore perché la bombola dell’aria compressa era scarica, grazie alla soverchia dabbenaggine della sua squadra, che nulla aveva da invidiare alla mitica armata Brancaleone.

Sulle pagine del dopo incidente alcuni squallidi riempirighe domenicali, aspiranti sciacalli, sensibili come ippopotami (e mi perdonino gli ippopotami), scrissero che trovare la morte su un’auto pagata fior di dobloni era molto elegante, quasi un raffinato suicidio da ricchi, e si affrettarono a seppellire il ricordo del giovane pilotino lombardo: forse

morendo di overdose avrebbe meritato un po’ di pietà...

A pochi diede modo di conoscere il suo animo da cavaliere templare: io ebbi l’onore di essergli spesso scudiero sulle rive di tanti circuiti.

Vicino a Torino, nell’officina dove piccoli uomini giocavano alle corse su una piccola pista, volle addirittura farmi sedere nell’abitacolo della sua Osella e mi sentii subito come un cetriolo in una battaglia per succhi di frutta: era il suo modo di ringraziare chi gli stava accanto; mi fece calzare anche i guanti e il casco, lo stesso nel quale esalò la sua ultima speranza, ma io avrei voluto scappare da quell’angusto sarcofago nel quale non c’era posto per avere paura e neppure per respirare.

Due mesi più tardi quel fragile involucro di lamiere, nel quale aveva nutrito l’entusiasmo dei suoi ventitrè anni, gli fu fatale, lasciando soltanto il ricordo di un ragazzo onesto, timido e solo.

Ed io, estremo superstite di questa tragedia terrestre, non posso che inginocchiarmi al colmo della sua lapide, recando il fardello di quella giovinezza immolata, per implorare il Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola, affinché un uomo buono di nome Riccardo possa vincere un giorno il Gran Premio del Paradiso.

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Antonella Ambrosini

MUGELLO, F3, 15 giugno 1979: 21 anni!

Regalo: un aeroplanino di plastica a molla. Biglietto: “prova con questo, forse riuscirai ad andare più forte!” Quasi mi picchia…prima di giocarci.

LESMO, LUGLIO 79, il curvone.

Tutti i ricordi e le speranze in questo pomeriggio di sole. “L’autodromo mi ha sempre ispirato”.

MONZA, ore 7 del mattino, il telefono...a quest’ora? “Sono in Inghilterra, volevo fare due chiacchiere prima di andare a provare...” mai una volta che telefoni a ore decenti quando è a Milano!

Formula 2? Come farai a tenerla con quelle mani da pianista!

Monza, molte sere qualsiasi all’ultimo momento “fra mezz’ora passo a prenderti”. Agli ordini...e se io avessi altri impegni?

Parco, ingresso di VEDANO, luglio 80. “Hai mai visto il parco di sera? Entriamo, rimane aperto fino a mezzanotte”. Ore 23, se non trovavamo quell’anima buona eravamo ancora là a correre da Vedano a Villa Santa, da Villa Santa a Monza, da Monza a Vedano, o in galera...che cosa ti è venuto in mente di aprire il lucchetto del cancello con il cric?

MILANO, via S. Vito. Io l’ho detto per scherzo; solo un pazzo poteva veramente chiamare uno york shire “Sansone”.

MILANO, io e te, soli. Non ho mai visto così tanti cartoni animati in una volta sola!

AUTODROMO DI MONZA, ROMBO TV. Se te l’avessi detto avresti fatto il prezioso. Comunque hai salvato la trasmissione, se non c’eri tu chi lo faceva l’ospite d’onore?

FORMULA 1! Ce l’hai fatta finalmente, adesso dovrò darti del lei!

MONZA, giugno 1983.

Ricordi vivi, come fosse oggi e tanti altri ricordi: felici, a volte malinconici, ma sempre dolci, ricordi meravigliosi, alla faccia di chi non ha mai creduto che si può essere solo amici, tanto amici, amici sempre, non soltanto quando ci si sente tristi o soli. Non è vero che l’amicizia è meno importante dell’amore, ma questo può capirlo soltanto chi ha avuto un’amico come te Riccardo, unico, irripetibile e insostituibile!

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Marco

Non ho mai scritto a Riccardo, ma per sapere certe cose non c’è bisogno di dirle o scriverle, basta sentirle, vivendo con un amico che sta camminando nella stessa direzione.

Da quando è partito, ho sentito tanto parlare, ed ho visto tante facce, tutti parlavano di corse, ma io non capivo cosa volessero dire.

Sicuramente dicevano le stesse cose che vorrei dire io, ma siccome spesso si usano linguaggi diversi, ritengo giusto scrivere qualche riga, osservando il cammino di Richy da un altro lato, quello che lui mi ha fatto conoscere.

Di macchine non ho mai capito nulla e non guardo le corse automobilistiche. Richy era mio amico.

Le nostre strade si erano incrociate forse per caso sui banchi di scuola. Avrebbe potuto vivere con tutti gli agi senza troppa fatica, cosa che molte persone cercano di raggiungere come meta finale.

Ricky, forse per questa sua peculiarità aveva conosciuto fin troppo bene il mondo che lo circondava, pieno di contraddizioni e di falsi ideali. Non sentendolo suo, inizia disperatamente a cercarne un altro che gli appartenesse veramente. Inizia la sua carriera automobilistica, spavaldo come sempre, attacca e si butta nel vortice, in breve tempo ottiene dei risultati. “Quando corri a 200 all’ora su una pista vedi la vita che ti sfreccia attorno mentre tu sei una macchina”.

La macchina era il suo mezzo di espressione, di rabbia, di ricerca.

Riccardo credeva in qualcosa e correva contro il tempo, ha fatto una scelta sempre consapevole di tutti i rischi a cui andava incontro.

È questo quello che ho ammirato in lui, nonostante le nostri differenti vedute ora che Richy ha raggiunto frettolosamente come sempre il suo traguardo, intuisco quanto sia stata difficile la sua scelta e sento quanto ci ha voluto comunicare. Continuo il cammino con Richy, seguendo le sue indicazioni “è sempre stato un buon driver”.

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Vittorio Gargiulo

È già passato un anno, l’incidente più assurdo della formula 1 ha ormai preso il suo posto negli annuari, negli archivi delle riviste...è divenuto un dato storico, un freddo assieme di date, cifre, nomi. Fa parte della casistica, delle statistiche. Riccardo Paletti verrà ricordato per sempre per la più stupida delle tragedie: nei libri di storia dell’automobilismo è comparsa una piccola croce accanto al suo nome accanto e accanto alla data del gran premio del Canada 1982.

Della vita di un ragazzo, di 24 anni spesi bene e male come ogni suo coetaneo, verranno ricordati solo gli ultimi, tremendi, lunghissimi secondi. Questa è la regola. Viviamo un tempo troppo serrato nel succedersi degli avvenimenti. Ogni giorno veniamo bombardati da notizie belle e tristi, che si accavallano, si superano, si accumulano e diventa sempre più difficile mantenere il senso delle proporzioni, dare il giusto peso ad ogni fatto, anche alla scomparsa di un amico.

Tante cose sono successe dal 13 giugno 1982, il ricordo di Riccardo rischia di sbiadire, di stemperarsi in un passato tanto vicino e pure così difficile da mettere a fuoco. La formula 1 (ma ogni altra attività le è alla pari) incalza, non lascia il tempo di meditare, di riflettere...bisogna lavorare sodo, pensare al futuro: è così per tutti in questa bestiale macchina. È difficile avere un attimo proprio per ripensare, per ricordare, sorridere...magari col magone che, nonostante tutto, riaffiora in certi momenti.

Ma è questo l’unico modo, il più bello, di ricordare Riccardo.

Ciò che ognuno serba in sè, un momento interamente proprio, privatissimo.

Certo servono anche commemorazioni e premi, libri come questo. Ma i premi si impolverano e i libri finiscono con l’invecchiare in biblioteca...nell’animo soltanto resta ben distinto, vivo, un’attimo passato con un amico.

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Franco Franchi

L’ULTIMO TSUKI.

Era entrato in palestra timidamente quasi fosse timoroso di dare disturbo e, appoggiato alla parete, nell’angolo più lontano, aveva filmato con gli occhi l’intera lezione.

Era questa la sua migliore qualità: assimilare rapidamente gli aspetti essenziali di un movimento ripetendoli poi con sicurezza, prima lentamente poi sempre più rapidamente, ma senza sbagliare.

Era sciolto, armonioso, veloce ma senza disordine. Parlava poco, ma quando lo faceva ti bucava con quei suoi occhi scuri che gli occhiali dilatavano senza nulla togliere alla loro fiera dolcezza.

La stessa dolcezza con cui sapeva sorridere, quando qualcuno lo toccava e che sapeva trasformare in determinazione tremenda quando decideva di attaccare.

Il Katà lo trasformava capace com’era di dare un’interpretazione intensamente vissuta alla sua lotta solitaria.

Lui che si era abituato alla solitudine delle discese sulla neve, di cui parlava con un calore diverso e con un trasporto emozionato.

Voleva volare e lo si capiva quando, incredibilmente portava la sua tecnica preferita, l’oi tsuki, che sapeva concludere con un kiai lacerante.

È partito certamente con la determinazione rabbiosa della sua forza interiore che la vettura rendeva esplosiva ed è stato l’ultimo tsuky.

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Mario Barenghi

Ho visto per l’ultima volta Riccardo, vivo, la mattina in cui abbiamo saputo della scomparsa di Villeneuve. Ho approfittato del momento per ripetergli, una volta di più, quanto fosse pericolosa la carriera del corridore ed a quanti rischi andava incontro. Mi ha risposto con molta sicurezza e anche con un poco di ironia che la morte di Villeneuve gli

procurava certo un senso di commozione, ma non lo avrebbe certamente allontanato da un futuro verso cui andava con molta serenità ed entusiasmo.

Ho rivisto Riccardo, morto, poco tempo dopo.

La notte stessa dell’incidente ho viaggiato con il padre da Milano a Montreal; io tormentato dal pensiero che lo sapevo morto, lui, non conoscendo ancora la verità, agitatissimo al pensiero che il ragazzo fosse sì ferito gravemente, anche molto gravemente, ma in grado di essere curato e riportato fra noi. Era seriamente, terribilmente angosciato dal dubbio che sentiva, che aveva sempre sentito nei confronti di suo figlio; permettergli di correre e di realizzare il sogno a cui teneva con tutte le sue forze e rimproverarsi perché così gli consentiva di esporsi a rischi troppo spesso mortali.

E ancora non sapeva e io non avevo il coraggio di prepararlo. Ha avuto la notizia all’improvviso, brutalmente, all’aeroporto dove siamo finalmente arrivati. A Montreal c’erano ad attenderci non i piloti amici di Riccardo, non il titolare della squadra per cui correva, non i responsabili dell’organizzazione né quelli della CSAI che, forse inconsciamente mi aspettavo di vedere; c’erano soltanto il caro Palazzoli, direttore sportivo della Osella, e Cesare Gariboldi tecnico ed amico da sempre; soltanto loro di tutto il mondo delle corse ci sono venuti incontro e alle prime parole di angosciose domande del padre hanno risposto: “Riccardo è morto”.

Dall’eroporto ci siamo precipitati in ospedale: e lì un uomo ormai distrutto, quasi incapace di reggersi, ha rivisto suo figlio.

L’aspetto di Riccardo era molto sereno, dolce, calmo, può forse essere un poco di consolazione a suo padre e a sua madre, sapere che è morto nella piena realizzazione di quello che aveva sempre desiderato di fare.

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Padre Cristina

L’amicizia non si diffonde e inaridisce in molte parole, talvolta esagerata e poco concreta, ma si realizza nella comprensione, nella stima, nell’amore. Parlare di Riccardo?

Sono ritornato nella sua casa di Milano in via S.Vito, appena arrivata d’oltre mare.

Ho girato lo sguardo alle pareti e mi sono sentito circondare dal volto dell’amico nelle molte fotografie e ho rivisto in lui il ragazzetto semplice, un po’ timido che fu con me allo “Zaccaria” sui bachi della scuola media: io professore, lui scolaro. L’ho riamato con sentimenti di fraterna cordialità.

Ecco alla mia mente il suo volto soffuso di un dolce sorriso, gentile ricco di affabilità.

Voleva lottare perciò frequentava con passione il karaté; voleva correre e allora il richiamo dei momenti della sua Aprica a gareggiare con i maestri di sci che lo stimavano e a lui vollero dedicare una nuova seggiovia.

Dalle nevi alle auto: correre, correre, sempre correre, la sua casa è ricca di coppe conquistate.

Degne di ammirazione le sue qualità di corridore, quali noi le vorremmo in tutti: entusiasmo, coraggio, lealtà, generosità. Qui c’è tutto Riccardo!

Così lo vorrò sempre ricordare, felice che nel suo nome si compia il bene a favore di chi ne ha bisogno.

Lasciato il circuito di Varano De’ Melegari dove Riccardo si esercitò le prime volte, rileggo con piacere le parole della lapide: “giovane campione di generosità”.

Plaudo con animo lieto alle molte iniziative volute dalla nuova associazione: “amici di Riccardo”.

Corriamo anche noi tutti, solidali nel suo nome a compiere il bene! Riccardo ci ama, ci protegge, ci aspetta.

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Gianni Segalini

Riccardo. La prima immagine che spontaneamente mi si affaccia alla mente, nel pensare a lui, è chiaroscura e per la dolcezza mista a sgomento, che il Suo ricordo suscita in me per averlo amato e perso, e quale nota caratteristica del Suo essere. È vero, Riccardo era così: sorridente e malinconico, dolce e austero.

L’ho conosciuto che era poco più che un ragazzo, quando espletavo la mia attività presso un’altra azienda, e venne nel mio ufficio a chiedermi un contributo per la sponsorizzazione di una Formula Super Ford. Era agli esordi ma mi aveva particolarmente colpito il candore con il quale chiedeva un esborso finanziario. Da allora sono passati parecchi anni e diventai il Suo sponsor per eccellenza e praticamente lo seguii sino alla Formula Uno.

Oggi Riccardo non è più fra noi, ma francamente non mi pento di averlo aiutato; ritengo che quando un uomo nella sua vita, attraversa non poche difficoltà, riesce a fare quello che veramente vuole, è già di per sè un uomo arrivato, al di là dei risultati e delle mete con le quali normalmente si misurano gli uomini. Riccardo quindi, a differenza di molti di noi, è riuscito a realizzare il Suo sogno che purtroppo la fatalità ha stroncato nel momento migliore, alla Sua prima vera partenza in F1 che era frutto di volontà e caparbietà più che del mezzo in suo possesso.

Io comunque lo voglio ricordare con i Suoi crucci ed i Suoi sorrisi, nei lunghi momenti in cui mi spiegava i Suoi obiettivi ed i Sui progetti per il futuro, che era indissolubilmente legato al mondo delle corse, mondo che aveva accettato con le sue incongruenze ed i suoi rischi. L’aveva accettato con amore e con passione al di là dei rischi estremi. E proprio per ciò, nel rispetto dell’uomo e dell’amico, lo ricorderò sempre con immutato affetto.

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Giuseppe

Di un amico è difficile scrivere quello che veramente è e rappresenta.

Riky è...

Uno schiaffo per gioco, un’amicizia profonda, un vuoto incolmabile.

Trascorrere insieme giornate gioiose, evadere dai nostri problemi e risolverli contemporaneamente; creare scorribande, piene di sfide e di giochi. Essere sempre insieme anche se lontani.

E come sempre “a presto Riky”.

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Marco

Non ho mai scritto a Riccardo, ma per sapere certe cose non c’è bisogno di dirle o scriverle, basta sentirle, vivendo con un amico che sta camminando nella stessa direzione.

Da quando è partito, ho sentito tanto parlare, ed ho visto tante facce, tutti parlavano di corse, ma io non capivo cosa volessero dire.

Sicuramente dicevano le stesse cose che vorrei dire io, ma siccome spesso si usano linguaggi diversi, ritengo giusto scrivere qualche riga, osservando il cammino di Richy da un altro lato, quello che lui mi ha fatto conoscere.

Di macchine non ho mai capito nulla e non guardo le corse automobilistiche. Richy era mio amico.

Le nostre strade si erano incrociate forse per caso sui banchi di scuola. Avrebbe potuto vivere con tutti gli agi senza troppa fatica, cosa che molte persone cercano di raggiungere come meta finale.

Ricky, forse per questa sua peculiarità aveva conosciuto fin troppo bene il mondo che lo circondava, pieno di contraddizioni e di falsi ideali. Non sentendolo suo, inizia disperatamente a cercarne un altro che gli appartenesse veramente. Inizia la sua carriera automobilistica, spavaldo come sempre, attacca e si butta nel vortice, in breve tempo ottiene dei risultati. “Quando corri a 200 all’ora su una pista vedi la vita che ti sfreccia attorno mentre tu sei una macchina”.

La macchina era il suo mezzo di espressione, di rabbia, di ricerca.

Riccardo credeva in qualcosa e correva contro il tempo, ha fatto una scelta sempre consapevole di tutti i rischi a cui andava incontro.

È questo quello che ho ammirato in lui, nonostante le nostri differenti vedute ora che Richy ha raggiunto frettolosamente come sempre il suo traguardo, intuisco quanto sia stata difficile la sua scelta e sento quanto ci ha voluto comunicare. Continuo il cammino con Richy, seguendo le sue indicazioni “è sempre stato un buon driver”.

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Prof. Amleto Comini

Tra centinaia di allievi che ogni anno passano dal liceo Pareto di Losanna è molto difficile ricordare i volti e le caratteristiche di ognuno, ma per Riccardo ciò mi è stato estremamente facile. Ha lasciato un segno che ancora oggi appare nitido alla mia memoria.

Riccardo è stato un ragazzo che si è distinto sempre per una innata forma di riservatezza e per una signorilità che non proveniva certo dalla sua classe sociale, ma che era connaturata al suo carattere. Ogni suo gesto, ogni sua azione erano pervasi da una sensibilità non comune.

Egli faceva del bene a tutti, quasi che la solidarietà con i suoi compagni fosse ovvia.

Settimanalmente ricevevo le segnalazioni degli allievi che si mettevano in evidenza per tutt’altri motivi: Riccardo non è mai stato tra questi. Tutti gli volevano bene e anche questo appariva come qualcosa di scontato. Lo si è visto nella commozione di tutti quando è giunto a Losanna la notizia dell’incidente di Montreal.

Pertanto penso di poter sintetizzare la figura di Riccardo con due semplici parole: sensibilità e signorilità.

A ricordo di questo bravo e coraggioso allievo, che tra l’altro vinse nello sci la Coppa d’Argento di Vittorio Emanuele di Savoia, un’aula del Liceo Pareto porterà il nome di Riccardo Paletti.

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Antonella

Ti ho conosciuto fra tanti amici, tu, che per natura nascondevi il tuo “essere solo” fra la gente.

Sinceramente, oggi, a distanza di tempo, tanto o poco, mi ritiro spesso a pensare al nostro incontro, nato per gioco, senza promesse e diventato senza volerlo qualcosa di più.

Hai cambiato il mio vivere, mi hai fatto parlare, ed insieme si parlava quel poco tempo che il bolide concedeva, quello che dedicavi a me. Il mio tempo migliore.

Ricordarmi di te, delle tue mani, dei tuoi occhi, della tua voce che spesso io sento ancora, la tua voce, a volte giunta da lontano, è una medicina, è la tua lezione di “vita” che ancora oggi mi insegna tanto. Riccardo, ti ringrazio del tempo che mi hai regalato, di quello che insieme ci siamo regalati, quello che ci ha fatto conoscere, quello che sul vocabolario chiamano “felicità”.

Grazie Riccardo.

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Almo Coppelli

Si può interpretare la vita in molte maniere, finalizzandola però alla guida di un’auto da gran premio, non si fa certo la scelta più semplice e comoda.

Alla guida di un’auto da corsa si è sempre soli, ci si deve basare solo sul proprio istinto e sulle proprie forze; ed è proprio questo che forse affascina tanto.

Riccardo come me e tanti altri aveva scelto questa strada che pur dura e difficile possa essere, una volta intrapresa diventa impossibile da lasciare.

Non è assolutamente retorica quando si afferma che solo correndo si vive realmente e che tutto il resto, altro non è che attesa di vivere, pur sapendo e accettando consciamente il rischio che questa scelta implica.

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Fabio

Hai lasciato un grande vuoto dentro me andandotene via, un vuoto che cerco di riempire con i ricordi che ho di te e con tutto quello che mi hai insegnato col tuo esempio: di ogni cosa possiamo farci una ragione di vita, se il nostro impegno, la nostra coerenza e determinazione ed il nostro sacrificio unito alla lealtà sostengono la nostra passione.

Per questo mi mancherai sempre, anche se ti cercherò dovunque.

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Claudio Lossa

Sono tra coloro che hanno avuto la possibilità di conoscere Riccardo in affari, apprezzarlo per le sue doti professionali e la serietà sul lavoro, abilità che i più ritenevano nascoste, quasi sopraffatte dalla passione per le corse, ma che invece erano sempre ben presenti in lui.

Almeno una volta alla settimana, a mezzogiorno, io e Arietto eravamo soliti incontrarci al ristorante: qualche affare in comune, l’andamento del mercato immobiliare, il lavoro in genere, fornivano lo spunto dialettico pressoché costante di nostri appuntamenti.

E spesso anche lui, Riccardo, partecipava a questi pranzi; ascoltava, interveniva, portava il suo contributo, fatto di idee nuove, giovani, coraggiose e prudenti al tempo stesso.

Idee che gli somigliavano. La sua presenza, solo apparentemente casuale, era in realtà spesso indispensabile: non a caso, era quasi sempre lui ad aver già visto l’immobile che era oggetto della nostra attenzione e ad aver già chiaro in mente un abbozzo di linea da seguire.

Compatibilmente con i suoi impegni sportivi, Riccardo stava imparando “il mestiere”.E lo faceva con applicazione, affinando giorno dopo giorno le tecniche apprese strada facendo.

Il suo compito era quello di visitare gli stabili offerti e di fotografarli, dando poi un primo giudizio di massima in base al quale impostare tutte le decisioni successive.

Sapeva già valutare a occhio un’immobile con sana prudenza senza nessun “colpo di testa”, nessuna mania di grandezza. Sapeva scegliere la “merce sicura”, si accertava che fosse in posizione valida e di facile commerciabilità: case di taglio medio, case per tutti, case per la gente che lavora.

Ricordo ancora quel giorno in cui si aprì con me, confidandomi le sue speranze, i suoi progetti. Mi stava accompagnando alla fermata della metropolitana di San Babila con la sua Audi 1600 fiammante, una delle ultime novità del mercato di allora. Mi aveva parlato a lungo dei suoi programmi sportivi ma aveva concluso: “se il mondo delle corse

non mi darà entro breve tempo tutto ciò a cui aspiro maggiormente, rivolgerò tutte le mie energie alla ditta di mio padre”. Una frase come tante altre, pronunciata da un ragazzo che guardava ad un futuro brillante pieno di speranze e di interessi. Una frase che, ricordata oggi, lascia in bocca il sapore dell’amarezza e della disperazione, perché quelle speranze, quegli interessi e quella voglia di arrivare primo, sono scomparsi con lui, inghiottiti da un destino che definire semplicemente “crudele” sarebbe mero eufemismo.

Voleva ricalcare le orme paterne. Voleva ampliare in tutta Italia la rete commerciale della Paletti e, se possibile anche all’estero. Pensava ad una direzione prettamente manageriale dell’azienda, ad un nuovo stile di muoversi nel mercato, in altre parole, pensava ad una azienda leader nel ramo immobiliare.

Proseguendo nella carrellata dei ricordi, mi torna alla mente un caldo fine luglio del 1979. Riccardo ed io ci eravamo dati appuntamento presso lo studio di un avvocato in Corso Vercelli.

L’incontro era stato fissato per mezzogiorno. Credo che per Riccardo si trattasse del primo vero affare immobiliare. Suo padre era già partito per le vacanze, affidando a me e al figlio il compito di condurre a buon fine le trattative.

La controparte si mostrò subito cortese, ma ferramente attestata sulle sue posizioni; non voleva recedere, in special modo per certi dettagli che per noi erano molto importanti.

Era dunque essenziale mantenere un’atteggiamento rigidamente elastico. Riccardo ed io, nonché accomunati da una ben celata timidezza congenita, riuscimmo a dare sfoggio di insospettata tenacia, quella tenacia che solo i timidi sanno far valere quando si impuntano su una questione che hanno particolarmente a cuore...ed a Riccardo premeva moltissimo ben figurare con suo padre anche in quella occasione.

Di tanto in tanto, Riccardo mascherava la sua apparente intransigenza dietro le disposizioni paterne. Io sorridevo tra me e me, compiaciuto per l’abilità soprattutto psicologica di cui il mio socio di affari stava dando prova. Inutile dire che la discussione fu lunga e difficile. Ciò non di meno, riuscimmo ugualmente a condurre in porto l’affare a condizioni a noi favorevoli. Sapevo che Riccardo aveva fretta di concludere: era in partenza per una corsa di F3 a Misano Adriatico, partenza che aveva fissato per le ore 14. Ma il limite orario non riuscì a condizionare il suo impegno, tanto che discusse fino all’ultimo con la calma dovuta.

Quando uscimmo di nuovo in strada eravamo entrambi soddisfatti. Al momento di congedarci, mi salutò con un bel sorriso ammiccante. “Ce l’abbiamo fatta” disse raggiante per quel suo primo traguardo professionale.

Una stretta di mano, un augurio reciproco di buone vacanze, quindi balzò sulla sua auto parcheggiata proprio davanti al portone sotto lo studio legale.

Rimasi a guardarlo metre si allontanava, accompagnandolo con lo sguardo con un cenno di saluto. Corso Vercelli, a quell’ora, era deserto. Un lungo nastro di asfalto che si snodava in città, incredibilmente somigliante ad una di quelle piste che esercitavano su di lui un fascino così irresistibile.

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Gianfranco Palazzoli

Da tanto, forse troppo tempo sono nel motorismo.

Qualche amico non c’è più, altri li trovo ingrigiti ma con sempre tanta passione nel cuore.

Da ragazzo, da adulto ho avuto modo di osservare, di vivere le mie e altrui interne emozioni che questa passione comporta.

Riccardo era dei nostri, anzi è “dei nostri” perchè sono convinto che quel suo sacrificarsi per qualcosa che tanto amava, in una giornata per lui felice dal punto di vista sportivo, forse servirà a placarlo dentro, a farlo sentire forte, uomo, nel senso che lui intendeva.

Mi piace ricordarlo così.

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Mike Earl

Quando incontrai per la prima volta Riccardo, pensai tra me: “ecco un altro rampollo di ricca famiglia che vuole correre in automobile e che potrebbe non avere il talento per farlo”.

Mi sbagliavo, mi impressionò immediatamente.

Con la somma di lavoro e di sacrifici era preparato per diventare un pilota professionista. Quando corse la prima volta per noi al Mugello nel 1980 era un ragazzino, eccitato di avere la sua chance in Formula 2, ma sempre impegnato ad imparare. La sua capacità di apprendimento era terrificante; quando ripenso alla prima gara dove non sapeva ancora parlare inglese e lavoravamo insieme con l’aiuto di un pezzo di carta sul quale erano scritti i più importanti termini tecnici in inglese e in italiano, e noi indicavamo le parole che ci servivano guardando poi la traduzione. Ma così forte era la sua determinazione nell’imparare l’inglese, per favorire la sua carriera, che quando gareggiammo a

Monza tre mesi dopo, il suo inglese era perfetto e i pezzi di carta potevano essere gettati via.

Anche il potere di apprendimento di Riccardo nelle competizioni era uguale, e una volta che qualcosa gli veniva detta, la ricordava e la serbava per il futuro, quando avrebbe potuto essergli di aiuto.

Fu a Monza nel 1980 che Riccardo venne veramente notato dai grandi team di Formula 2, quando solo alla sua terza gara di Formula 2, egli conquistò un bel terzo posto.

Gareggiò con il mio team durante tutto il 1981 e si confermò come uno dei migliori piloti di quell’anno; ma molto più importante per me a quel tempo egli divenne un vero e fidato amico di mia moglie Dinah e mio, vivendo nella nostra casa in Inghilterra, durante il periodo della nostra stagione di sviluppo.

Abbiamo avuto momenti felici e divertenti, in quei due anni e mezzo, e credo che egli si sia divertito tanto quanto noi.

In seguito andò incontro al sogno che aveva sempre desiderato: la Formula 1.

Noi ci parlavamo al telefono dopo ogni gara e discutevamo della corsa e della sua carriera che sarebbe stata molto buona.

Ero a Montreal il giorno in cui morì e non dimenticherò mai l’insieme delle emozioni che provai in quel momento: tristezza, la sensazione di una grande perdita, rabbia che una cosa tale fosse accaduta a una tale persona.

Delusione perché non avevamo avuto l’occasione di lavorare insieme in Formula1 come avevamo programmato, ma più di tutto un senso di solidarietà verso i genitori di Riccardo che si erano visti portar via il loro unico figlio in una maniera così selvaggia. Lo avevano sempre sostenuto in questo sport, anche se probabilmente non hanno mai

compreso perché avesse bisogno di farlo. Sono ancora dei meravigliosi amici, ed hanno agito con coraggio e dignità da quel giorno fatale.

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